E adesso tocca a noi! Tocca a noi cittadini dire se siamo d’accordo o meno con la riforma costituzionale che il Parlamento ha approvato pochi mesi fa con il 57% dei voti a favore. Un’approvazione arrivata dopo che il Parlamento aveva preso un impegno solenne di fronte all’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e dopo sei letture tra Camera e Senato, dopo centinaia di modifiche e dopo aver discusso milioni di proposte emendative.
Questo è stato l’iter, durato oltre due anni, che ha portato ad approvare la riforma costituzionale che sarà oggetto del referendum del 4 dicembre.
Una riforma che non tocca minimamente la prima parte della nostra Costituzione, quella parte che rende la nostra Carta costituzionale la più bella del mondo, e che ha gettato le fondamenta per la ricostruzione sociale e politica del nostro Paese dopo la Seconda Guerra Mondiale. Se vogliamo che i principi fondamentali sanciti per ogni uomo e donna richiamati nei primi dodici articoli, siano attuati compiutamente dobbiamo rendere adeguate le Istituzioni del nostro Paese. Serve allora un salto in avanti rispetto all’efficienza del loro funzionamento e all’efficacia di quanto producono. A 70 anni dalla nascita della nostra Repubblica, una revisione è doverosa, quasi naturale.
Ecco perché la riforma delle nostre istituzioni è annunciata da oltre 30 anni e tutti i partiti, nel susseguirsi delle diverse campagne elettorali, l’avevano promessa. Di questa promessa si sono ricordati in pochi. Lo ha fatto il Partito Democratico mentre altri, oggi, pare che abbiano dimenticato gli annunci e le promesse e che questa amnesia non abbia nulla a che vedere con il merito della riforma.
Ora, un insieme disomogeneo di gruppi e partiti che non hanno un’idea comune alternativa alla riforma (e che non l’avrebbero nemmeno il giorno dopo il suo eventuale respingimento), sono impegnati in una campagna volta a lasciare tutto così com’è, ben consapevoli che bloccare oggi la riforma costituzionale significherebbe rinviare alla calende greche quei cambiamenti che tutti sembravano volere.
Da sinistra a destra infatti abbiamo sentito in questi anni invocare il superamento del bicameralismo paritario, un unicum che ci contraddistingue in tutta Europa e che è considerato da tutti come il freno che ha rallentato il Paese (la legge sugli ecoreati è arrivata con un anno di ritardo, quella sulle unioni civili con almeno un decennio di ritardo); un bicameralismo che ha offerto ai partiti l’alibi per non approvare leggi “difficili” ma indispensabili (ad esempio la legge sulla tortura). Il SÌ al referendum ne consentirebbe il superamento, con una riduzione dei costi: sia di quelli dovuti all’inefficienza e alla lentezza delle decisioni, sia di quelli legati alla riduzione del numero dei parlamentari.
Il SÌ al referendum consentirà di trasformare il Senato in una Camera delle Autonomie che non farà più le leggi (se non in pochi casi), ma farà da raccordo tra lo stato centrale e le autonomie locali.
E dopo 1690 ricorsi negli ultimi 15 anni tra Stato e Regioni, il SÌ al referendum rappresenta l’occasione per fermare questa “guerra” sui conflitti di competenza, assicurando al contempo, attraverso l’art.116, che le Regioni più virtuose possano guadagnarsi maggiori spazi di autonomia, realizzando quel federalismo “competitivo e differenziato” che il Partito Democratico pensa sia la giusta soluzione per migliorare i servizi al cittadino e che partiti come la Lega Nord, ad esempio, hanno sempre invocato ma che ora fanno finta di dimenticare.
Del resto anche chi ha da sempre invocato il taglio dei costi della politica, oggi ha l’occasione per far SÌ che quel taglio sia realtà e non sia pura demagogia, non solo agendo sul numero dei parlamentari, ma eliminando strutture inutili come il CNEL, superando definitivamente le Province e obbligando le Regioni, a fare ciò che noi in Emilia-Romagna abbiamo già fatto: equiparare l’indennità dei consiglieri regionali a quella dei sindaci dei comuni capoluogo ed eliminare le spese di funzionamento dei gruppi consiliari che in questi anni hanno determinato le ben note inchieste della magistratura.
La riforma è anche il modo per far crescere e migliorare qualitativamente la partecipazione dei cittadini alla vita democratica. L’istituzione del referendum propositivo e l’introduzione dell’obbligo di discussione parlamentare delle leggi di iniziativa popolare, sono due esempi di come questa riforma accresca le garanzie di partecipazione dei cittadini alla formazione delle leggi e alla vita delle istituzioni.
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